«Dalla visione di queste grandi tele comprendiamo l’unitarietà della ricerca di Lovaglio, fino all’approdo al suo pensiero negli ultimi anni, nel segno di una vera e propria ossessione: la guerra. Sarà stato probabilmente il tema stesso a determinare il ritorno di tanti aspetti della sua pittura, fatto è che l’urgenza di raccontare non una storia – non siamo mai di fronte a una narrazione – ma sensazioni forti vissute in questi anni lo ha spinto ad un linguaggio immediato, ed in quest’immediatezza (che non è mai spontaneità) Lovaglio ha ritrovato l’intera sua vita pittorica. Se infatti nelle sue tele informali ritroviamo un alto grado di “pensosità”, vale a dire una lunga riflessione ed elaborazione mentale di un pensiero appena latente prima di ogni gesto e dell’attività figurativa stessa, qui siamo di fronte ad un’energia che diventa immediatamente forma. Dalle grandi distese di nero attraversate da solchi bianchi ed annaglianti dei suoi ultimi Paesaggi, si passa qui ad un ammasso di forme incui si riaffaccia la figura. Qui la figura, che sembrava relegata a un momento iniziale della sua ricerca, torna prepotentemente, e nel senso letterale, in primo piano, con forza e violenza, per poi poter subito essere annichilita, con altrettanta forza e violenza. Ma c’è veramente opposizione fra figura e paesaggio? L’astrazione (apparente) delle grandi forme da cui scaturisce a volte il frammento di una forma umana (bocca urlante, occhi abbacinati) non ci fa pensare, in quest’ultima serie di Lovaglio, anche al “Capolavoro sconosciuto” in cui dietro la follia dei segni riconosciamo nuove forme? Cosa vediamo, dunque, la figura o il paesaggio? O possiamo pensare, invece, ad una figura che si fa paesaggio, ponendosi come suo stesso orizzonte? Lovaglio ha voluto porsi di fronte alla guerra come cronista; non di avvenimenti ma del dolore e dell’impotenza umana.»
(Romeo D’Emilio, da Note a margine degli “Appunti di guerra”)
2003
Olio su tela
200 cm x 200 cm
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